Il
primo incontro con Davide
di Riccardo Venturi
Il
mio primo incontro con Davide Giromini è stato tra
quelli che non si dimenticano. In una serata a Cantù,
e se ci ripenso sarà ormai un anno e mezzo fa, assieme
ai Delsangre (che accompagnava) e ai Caravane de Ville.
Davide aveva un mal di denti terrificante, con quella sua
aria che mi viene da definire irta; stava male. Sarà
difficile dimenticarsi il suo personalissimo modo di tentar
di farselo passare, quel mal di denti; e sarà ancor
più difficile dimenticare la sua aria mentre sonava
la sua fisarmonica. Stavo lì a sedere nella sala
dell’ARCI di Mirabello, la stessa di una storica Piola,
e vedevo un tizio che non sonava, ma che volava con lo strumento.
Improvvisi decolli verticali, loopings, discese in picchiata,
atterraggi sfiorati seguiti da risalite delicate; un aeroplano
da combattimento alla fisarmonica. A occhi chiusi, proprio
come se avesse una sua specie di radar in funzione; e lo
guardavo, e lo ascoltavo a bocca che era aperta anche se
restava chiusa.
Ne
seguì una delle nottate più bìschere
e più belle della mia vita, nelle camere di una cascina
della zona trasformata in “agriturismo”, a base
di cazzate, di birra, di vino e del Giromini, che oramai
fulminato da tutto il mix che aveva ingurgitato, continuava
a chiamarmi “Roberto”.
E Roberto
sono rimasto anche quelle poche altre volte che l’ho
visto.
Troppo
poche. Ma così è quando nel mezzo ci son delle
montagne e dei passi da valicare, e queste sono montagne
dalle quali il mare non si vede affatto, né lo si
immagina alla prima curva dopo.
Una
di queste poche volte che l’ho visto, lo sento anche
cantare una sua canzone. Ne parla semplicemente come “Inno
del cavatore”, perché Davide è un carrarino.
Mi viene un po’, all’istante, da pensare a quella
terra, che la si chiami “Apuania” o in un altro
modo. Una terra che conosco poco, anzi pochissimo. Carrara,
poi, non la conosco affatto. Non ci sono mai stato dentro.
Solo rapidi e fugacissimi passaggi dall’autostrada.
Le montagne altissime da un lato, il mare dall’altro,
i blocchi di marmo.
L’anarchia.
Già, quella è la “terra storica”
dell’anarchia, e passano per la testa nomi solforosi,
da Gino Lucetti a Belgrado Pedrini, da Raffaelli e De Feo
(gli autori di “Figli dell’officina”),
da Goliardo Fiaschi a Vatteroni. E intanto il Giromini,
sul palco improvvisato in mezzo a un prato brianzolo, suona
e canta che in cava si sale e in miniera si scende. Suona
e canta di morte bianca per quattro soldi.
Canta
come suona la fisarmonica, come un aeroplano, con versi
del tipo “candido refrattario cieco destino di bianca
altura” o “del canto del demonio che inesorabile
il cor violenta”. E ancora una volta chiudo gli occhi,
perché mi piace entrarci dentro, una canzone. Voglio
essere lì. E la canzone avanza veramente con il passo
pesante e faticoso del cavatore; il demonio di tutte le
montagne si fa strada assieme a lui, ed assieme a lui manda
per davvero un saluto all’inferno. La morte per quattro
soldi. Mio nonno materno finito in ghisa e conteggiato 411
lire.
Riapro
gli occhi. C’è poca gente su quel prato, a
sentire quella canzone necessaria, la stessa sera della
finale del campionato europeo di calcio.
Qualche
mese dopo vengo a sapere che Davide Giromini ha fatto un
disco, chiamandolo “Apuamater”. La “madre
Apua”, o qualcosa del genere; per me, tizio sempre
di passaggio, “Apua” è il nome di un
viadotto dell’autostrada A12. “Viale Apua”.
L’incrocio tra un viadotto e l’Alma Mater, quel
nome che appiccicano sempre alle università. Apuamater,
no, non l’ho ascoltato fino a pochissimi giorni fa.
E se il disco di Massimiliano Larocca, per usare l’espressione
oramai consolidata di Franco Senia, non venderà un
cazzo, è probabile che l’Apuamater del Giromini
venderà ancora meno. E’ probabile che verrà
portato a giro con lo stesso passo del cavatore, un disco
per quattro soldi. Un altro disco necessario. Un altro disco
di passioni. Passioni che non so se vadano o ritornino.
Non so se siano mai andate via o meno. Sempre il Senia,
giorni fa scriveva una cosa formulando(si) una domanda cruciale:
" ‘Il ritorno delle passioni’, profetizza
e canta un amico nel suo disco. Sì. Ma come diavolo
fa uno cui le passioni non sono mai andate via, a vederle
tornare?” E’ una domanda cui vorrei saper risponder,
cui vorrei poter rispondere in qualche straccio di modo.
Ma non lo so. Aspetto qualcosa. Forse di poter essere in
grado di rispondere, forse qualche altra cosa, forse niente.
Forse
anche molte passioni stanno aspettando qualcosa; compreso
qualche disco come questi. Fuori dal “mercato”,
come si dice; ma dentro una razza di cose che si condividono
nel più profondo. Non vendono un cazzo, già;
ma girano. Girano e si fanno girare. Coi loro passi, pesanti
o lievi che siano. Questi non sono dischi che vendono, sono
dischi che camminano. A volte corrono, persino. Assieme
alle passioni.
Una
voce con pesante accento fiorentino parla di Pasolini e
Giordano Bruno; mi sembra di conoscerla, di conoscerla bene.
Termina con una ghignata in cui la stessa voce dichiara
di andargliela dire anche a Pasolini n’i’viso,
quando lo rivede; e nel mezzo c’è una canzone,
“Anima Mundi”, “liberamente tratta dalla
vita di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi”. Nel disco,
assieme al Ceccardi e alla sua vita, c’è anche
Carlo Monni, uno che a differenza di Roberto
Benigni non ha mai abbracciato Bill Clinton o ricevuto premioscar.
Ci sono i Delsangre, c’è Massimiliano
Larocca, ci sono Marco Rovelli e Alessandro
Danelli degli “Anarchistes”.
Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi nacque a Genova in via Caffaro il
giorno della Befana del 1871. Si trasferì presto,
però, assieme alla famiglia vittima di una grave
crisi economica, a Ortonovo, e poi a Massa. In Apuania.
Studiò da notaio, ma se ne andò da un’altra
parte. Le cronache dicono che in lui predominasse “lo
spirito poetico e letterario”, come –mi vien
da pensare- in un altro genovese di qualche tempo dopo,
che pure aveva studiato legge senza finir gli studi. Conosce
alcuni giovani genovesi che scrivono, e nel 1895 pubblica
il suo “Libro dei frammenti”, nel quale si avvertono
echi di due noti bevitori d’assenzio francesi.
Vagabonda
poi qua e là per una delusione amorosa, o per una
passione che se n’era andata; torna a Genova, si sposa,
ha un figlio che chiama Tristano, ha una disputa che gli
provoca diversi nemici e deve nuovamente lasciare Genova.
Il seguito è una vita errante tra la Liguria, la
Versilia e la provincia di Modena, di dove è la moglie.
Tra il 1903 e il 1905 scrive diverse raccolte di versi,
una delle quali si intitola “Apua Mater”; diventa
un esaltatore dello spirito nazionalistico, vive senza il
becco di un quattrino malgrado una virgola di notorietà
che si è guadagnato, si separa dalla moglie (con
la quale poi si riconcilierà), fonda un quotidiano
a Firenze (“Il popolo”) che chiude dopo un mese
e mezzo, e torna a vagare come una bilia. Per farlo vivere
gli assegnano dei “compiti ufficiali”, come
scrivere e pronunciare un pubblico saluto di benvenuto a
Gabriele d’Annunzio ospite a Portofino, oppure tradurre
dal latino gli Annali del Caffaro, un cronista ligure del
XII secolo; ma tale incarico gli verrà revocato per
il suo impegno incostante.
Nel
1910 esce una raccolta complessiva, intitolata “Sonetti
e poemi”; non vende un cazzo. Ceccardi è alla
disperazione; nel 1914 si ammala e si infuria per una sottoscrizione
nazionale aperta dai suoi amici, la quale aveva fruttato
1.500 lire. Sta per scoppiare la guerra, e il poeta è
“interventista”: incontra anche il socialista
Benito Mussolini. Nel 1916, al “Carlo Felice”
di Genova, va in scena il suo “Don Chisciotte”:
l’ultimo suo fiasco totale. Nel 1918 muore la moglie.
Lui, invece, muore a Genova il 3 agosto 1919.
Un
cosiddetto “minore”, la cui vicenda umana il
disco di Davide Giromini, intitolato a partire da una sua
opera, segue “in tre tappe fondamentali”. “La
forte e quasi morbosa dignità di un poeta che vuole
essere riconosciuto tale fino alla morte” (cosa che
mi ricorda, e da vicino, Piero Ciampi; un altro che non
vendette mai un cazzo); “L’attaccamento alla
terra apuana e l’amore per la sua gente, della quale
il poeta si sforza di far ricordare il sangue rivoluzionario”;
“La condizione di viandante”. Così si
legge nell’introduzione all’album. Un viaggio
“che va dalle alpi Apuane al mar Tirreno”; un
viaggio nel quale il comandante Facio, Dante Castellucci,
s’incontra con Heidi Giuliani, nel quale Laura Seghettini,
che di Facio era la compagna, s’incontra con Michelangelo
Buonarroti, nel quale Dreyfus s’incontra…con
la fisarmonica. Uomini ed ombre. Viaggi e incontri con e
nella musica che, come scrive Davide Giromini, “siamo
abituati a fare nelle spiagge e all’osteria”.
Qualcuno,
ascoltando l’album di Massimiliano Larocca “Il
ritorno delle passioni”, si sarà forse chiesto
che cosa significhino i versi cantati proprio da Davide
Giromini all’inizio e alla fine, sempre duettanti
(o duellanti) con la sua fisarmonica. “Ora il mio
debito estinguo così, con un cestino di vimini”.
Forse questo suo album è la spiegazione. Un debito
da estinguere (“Non potevo fare a meno di racchiudere
tutti in un unico ‘recipiente’ “), qualcosa
da pagare con un cestino di vimini pieno di canzoni, di
musica, di storie, di terra, di mare, di aria, di passi.
Uno
di quei cestini che i viandanti si portano sempre appresso,
e nel quale ci son cose che ci stanno da sempre, cose che
si aggiungono via via, e magari anche qualche cosa che sembra
perdersi nel peregrinare di qua e di là. E’
una cosa che ben conosco; avessi mai imparato a cantare
e a sonare la fisarmonica, magari sarebbe sortita anche
a me, prima o poi, un’ “Ilva mater”; o
forse no. Tocca quindi, peraltro con estremo piacere, parlare
delle “mater” altrui. Ma il cestino di vimini
è sempre lo stesso, e ognuno estingue il suo debito
come può.
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