BiELLE RECENSIONI

 

Mitili FLK
Ratatuie

Nota, 1999 (1° edizione 1993)

"Percorsi di musica sghemba". Era un titolo degli Yo Yo Mundi, ma è anche il percorso con cui la musica ci gira attorno. Non si riesce mai ad identificar el’itinerario da cui ci cadrà addosso e quindi nemmeno l’impatto, che dipende dall’angolo di incidenza, dalla velocità relativa, dalla rifrazione della luce, ma soprattutto dal piacere istantaneo. Può quindi capitare che un disco stia in giro per 10 anni prima di arrivare, in modo sghembo, sul mio lettore. E se a qual punto piace? Abbiamo perso 10 anni? “Ratatuie” dei Mitili Flk ha seguito questa strada. Meno male che, alla fine, è arrivato. (Ps: Ratatuie significa: ciò che si scarta, che si getta via perché inutile)
Uscito originariamente come cassetta nel 1993, "Ratatuie" è stato riedito in cd nel 1999 per i benemeriti tipi di Nota. E’ un disco che suona smagliante e attuale tanto da farti venire serio il dubbio sul fatto che sia successo ben poco negli ultimi 10 anni. O, viceversa e titolo di merito per gli Flk (che nel frattempo hanno perso i Mitili), che il lavoro fosse una bella fetta avanti sul resto della musica che girava intorno. Una contaminazione di motivi popolari (tra cui il tema ripreso anche ne "La bella dama senza pietà" di Branduardi) e di rap puro, giocando sull’assonanza in lingua furlana tra "rap" grappolo d’uva e "rap" musica nera. Il disco è tutto cantato in furlano, lingua a cui i vari Luigi Maieron , Lino Straulino e Loris Vescovo mi stanno ormai abituando e anche in questo caso l’effetto è suggestivo, quasi ci fosse una musicalità naturale di questa lingua che si esprime bene anche con abiti di tessuti diversi: dal folk di più rigida osservanza, al cantautorale di Maieron, dalla ballad americaneggiante di Straulino, alle spezie jazzate di Loris Vescovo, fino ad arrivare a un uso rap della lingua.
Degli Flk trovo in rete questo pensiero che condivido "Non abbiamo giustificazioni per cantare in friulano. Da mille anni la nostra gente parla questa lingua. Non lo facciamo per non essere capiti. Lo facciamo perché siamo diversi. Perché tutti sono diversi da ognuno - insostituibili. La diversità non è una moda. E' un pensiero. L'essere stesso degli uomini. Potremmo cantare in un'altra lingua. Ma non saremmo più gli stessi. Crediamo non ci sia nessuna contraddizione nel rivendicare la propria cultura e operare contro le chiusure e i confini, parlare la propria lingua ed essere internazionalisti, contro le guerre di ogni tipo".

E’ un disco robusto, con un suono forte, da ascoltare a buon volume e da far muovere i piedi. La formazione degli Flk da allora è cambiata: dei 10 membri del primo disco ne restano 5, più uno nuovo e devo dire che, sentiti distrattamente, mi hanno convinto meno ora rispetto a questo vecchio lavoro che, giova ripeterlo, non è solo rap e si giova anche di aperture mitteleuropee di gran fascino. Disco difficile da trovare, ma perché rinunciare? In fin dei conti 10 anni non sono moltissimi.

Leon

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Gianna Nannini
Aria

Universal - 2002

Che dire? A me Gianna Nannini è sempre stata simpatica. Poi, dopo questa autoidentificazione con Pippi Calzelunghe cosa manca per farla assurgere al mito?
Non tutto fila liscio all'interno di "Aria". Ci sono episodi meglio riusciti ed altri che stentano ad ingranare, ma su tutto spira un'aria (per l'appunto) di sincerità che, ad esempio, faccio più fatica a ritrovare nell'ultimo Ligabue. Gianna Nannini è uno dei pochi, pochissimi esempi di rocker al femminile che abbiamo in Italia. Conviene tenersela stretta, tutelarla come razza in via d'estinzione. Quando poi, dopo qualche disco in tono leggermente minore, che facevano temere un appannamento della cantante toscana, esce un buon prodotto di rock robusto, urlato e giustamente "sudato" come "Aria", beh, forse è il caso di dare corda alle campane e annunciare a distesa la buona novella. Gianna è tornata. "Aria evoca il bisogno di un cambiamento, di fantasia, della voglia di prendere il volo ha spiegato Gianna Nannini in un'intervista - . Questo è un disco che si stacca da terra. "Aria" è anche il mio elemento, visto che sono un Gemelli. Questo è un album che naviga tra diversi elementi… Ma non va spiegato, va ascoltato…". In effetti "Aria" è un lavoro a più strati, uno sorta di millefoglie musicale. Tanti i contributi dei cuochi pasticcieri: alle parole ha collaborato, come è più che noto, Isabella Santacroce, scrittrice pulp di buona fama, mentre alle musiche hanno lavorato il trio catanese (l'album è stato registrato sulle pendici dell'Etna) Gulisano-Marletta-Oliveri, mentre alla produzione si sono alternati Armand Volker e Peter Zumsteg, tandem già usato per "I maschi", mentre il "noise computer" che caratterizza tutto il disco, è nelle mani di Christian Lohr. È un lavoro che prende, energico, sufficientemente creativo, anche muovendosi su una tavolozza di colori non ricchissima (il beat, il ritmo come chiave dominante), sufficientemente moderno come suoni (qualche eco da discoteca lo si poteva anche limare) , ben scritto (pur se con qualche crudezza ad effetto di troppo. La mano della Santacroce?): "Fammi sentire il paradiso gridare, sudate danze vorrei servire, elettriche stanze in cui godere, regni dell'eros penombre di miele. Nel miele ti voglio assaggiare, nel miele ti voglio penetrare" da "Mio", oppure "Ed era tutto il niente che avevo dentro guardandoti, hey grida agli occhi miei, quanto male fa arrendersi. Io non ho amato mai l'eco di un addio senza musica" da "Meravigliosamente crudele". O infine: "Angeli di ali immobili, sopra roghi gravidi, succhiami respiri ultimi e dopo mangiami", versi tratti dal brano Amore Cannibale Di sicuro una grande voce, potente, duttile, sensibile, con un fondo di tristezza che lotta contro tutta l'altra energia per emergere, ma che dona dei riverberi da anima ferita che tanto possono piacere. "Aria", "Volo" e "Un Dio che cade" leggermente sopra gli altri. Forse "Dj Morphine" una linea sotto.

Leon

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Ned Ludd
A zero ore
It Cd 2002

Può non piacere a tutti. Il suono forse non è più così innovativo come poteva sembrare un tempo. E le contaminazioni tra rock e musica popolare hanno smesso di essere novità dai tempi dei Fairport Convention o tra folk e punk dai tempi dei Pogues. Il clima in cui ci aggiriamo è quello. Gighe, ballate, combat-folk. Testi impegnati e musiche popolari. Ma l'esito, questa volta, a me pare interessante. È chiaro che è questione di "esserci" o meno, di sentirlo o meno. Un raffinato jazzofilo di destra si alzerebbe e scodellerebbe il suddetto cd nel cestino dei rifiuti. Non rientrando in nessuna delle categorie precedenti invece io lo passo e lo ripasso sul lettore, per capirlo meglio. I Ned Ludd sono un nucleo stabile di 5 persone, che si articola intorno a Gianluca Spirito (autore di testi e musiche e voce) e che con una decina di collaboratori hanno messo in piedi quasi 70 minuti di musica (un cd bello pieno!) in cui mandolini, bodhran, bouzoki, cornamuse, violini, fisarmoniche e cori sostengono come ampio tappeto sonoro, testi di denuncia sociale (uno ispirato anche a Frederich Engels!) e squarci poetici. Due righe soltanto per spiegare chi sia stato Ned Ludd e come da lui derivi il "luddismo": Chi era Ned Ludd? Era un operaio inglese che nel 1779 fece a pezzi un telaio per lui "troppo" moderno, perché quel telaio era il simbolo delle nuove tecnologie che gli rubavano il lavoro. Da lì in poi "luddismo" sta per indicare un rifiuto acritico della modernizzazione, uno scaricare sulle macchine la colpa dello stato operaio. Personaggio romantico e perdente in partenza … e quindi proprio per questo dannato alla simpatia. Dal titolo del cd "A zero ore", fino al titolo di alcuni brani ("La danza della disoccupazione", "Se lavora pè vivere e se vive pè lavorà" "Uomini socialmente inutili") è facile risalire alle dinamiche trattate. Se poi aggiungiamo che nel sito il gruppo si definisce "no profit" , il quadro forse è completo. Cosa convince e cosa no? A me piacciono le musiche. Forse non innovative, no, ma suonate con passione e con competenza. Ogni suono trova la sua ragione d'esistere. E l'atmosfera emerge da subito e non vi abbandona nemmeno alla fine dell'estenuante viaggio (forse la durata è un limite). Altro limite l'interpretazione vocale non sempre a livello con quella musicale, ma la voce di Gianluca Spirito ha comunque personalità e vivacità. Mi ricordano, tra i gruppi ascoltati di recente, i Ratti della Sabina (anche i Ned Ludd operano vicino a Roma), forse con un po' meno di carica poetica, ma con la stessa carica vitale. Insomma: disco schierato.Ascoltatelo solo se vi piace il genere, se avete voglia di muovere le gambe e non tenere a freno il cervello

Leon

Nuova Compagnia di Canto Popolare
"La voce del grano
"
Harmony Music - 2001

Disco a due, tre, molte facce. Disco esaltante in alcuni passaggi e deprimente in altri. Ogni tanto stai per urlare "al capolavoro" e il brano dopo come minimo ti annoia. Il risultato complessivo è più che buono anche perché "Accussì", "Lanterna magica", "Lontano da te" e, soprattutto, "gli occhi di Salgado", dedicata alle immagini del famoso fotografo, sono momenti di intensa suggestione e di pura poesia. Quando invece in cui si ripiega sulla tarantellata sinceramente si fa fatica a reggere e le canzoni appaiono di una lunghezza infinita. Più in generale i momenti musicali sono la carta vincente: il disco è suonato benissimo, con uno splendido lavoro della chitarre e delle percussioni di Corrado Sfogli e Carmine Bruno rispettivamente, mentre la voce di Fausta Vetere, per quanto velata da un filo di polvere degli anni, è sempre fascinosa. I brani lenti penetrano sotto pelle, raggiungendo strati che quelli più mossi non riescono a toccare: sinceramente i 3'30" di "Chi è devoto" si fa fatica a reggerli, i 4'25" di "Stann' arrivando" tutti su un ritmo binario fanno l'effetto della Corazzata Potemkin (dù palle!) tranne che nei 40 secondi superbi in cui canta Fausta Vetere e "Il carro e la luna" è materiale già mandato a memoria.
Come ormai è un po' consuetudine della nuova canzone napoletana, ma forse è meglio dire mediterranea in genere, la contaminazione è la cifra stilistica preminente. Le villanelle, le moresche, le tarantelle sono ora unite alle nuove melodie mediterranee. Una ricerca tra la musica etnica che in qualche modo lambisce i nostri territori. "Tutti noi siamo stati educati ad avere paura del diverso - hanno dichiarato - a vivere un rapporto negativo. Il Razzismo non è una malattia sociale ma è una falsa lettura delle diversità".
"Viaggiare in questo mare - afferma la NCCP - significa incontrare il mondo della Magna Grecia sulle coste calabro-siciliane, la preistoria in Sardegna, la presenza araba in Spagna, l'Islam turco in Jugoslavia. Significa sprofondare nell'abisso dei secoli fino alle città di Gerico e Catal Hoyuk, alle piramidi d'Egitto o alle costruzioni megalitiche di Malta". Influssi ben presenti tra i solchi de "La voce del grano" e, a mio parere, più la nave sala e prende il largo dal porto di Napoli, più la buona musica gonfia la pancia delle vele e la navigazione scorre libera e felice sopra le onde di un mare che ora è soprattutto cultura. "La voce del grano - scrive la NCCP nella presentazione al disco - e la voce di tutti gli spiriti e le forze che una volta popolavano la natura. La cultura popolare sapeva distinguere gli spiriti buoni da quelli cattivi, sapeva riconoscere e trattare la natura come una individualità vitale". "Alla fine la voce del grano vuole essere una metafora che racconta il bisogno irrinunciabile dell'uomo di adoperare la poesia e la fantasia come evocatrici di immagini e ridare così, come una volta faceva il mito, un senso alle cose".
E questo disco ha un senso? Sì, in bilico tra meraviglia e già sentito. Arpeggi di chitarra, di mandola o di oud magici e l'ennesimo ritmo di tarantella di cui avremmo fatto a meno. Compratelo, fatevele masterizzare, ma soprattutto ascoltatelo.

Leon

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Marco Panattoni
Progetto di cd: Gonne di Gabardine

per informazioni paco10@tin.it

Marco Panattoni e' bravo. E ovviamente non trova un cane che gli faccia fare un disco. Ho tra le mani questo "progetto di cd" che risale al febbraio 2001 dove, assieme a Marco (pianoforte e voce), suona una band di cinque elementi, piu' Freddy Bertelli all'armonica e la Banda musicale di Porcari. L'impasto musicale che ne esce, fortemente impregnato da un hammond che da' un tono "vintage" al tutto, assomiglia ad alcune cose di Capossela. Sotto tutto un'anima di tango, sensuale e calda al servizio di parole mai banali e di storie da ascoltare. Come tutti coloro che cercano di emergere dal sottobosco musicale, Marco ha partecipato (e vinto) un concorso, Ma non uno da poco: il Premio Ciampi. A cui lui, lucchese, ha partecipato con una cover del grande livornese (e chissa' quanto gli deve essere costato in termini di campanilismo!): "Il vino", resa in una versione superba, notturna, mazzata, fumosa, piacevolmente estenuata, quasi "fane'". Ma con Ciampi il contatto e' tutto li'. Dal punto di vista del cantato, della voce, il modello forse e' piu' Francesco Guccini, a cui lo possono avvicinare la mole e una certa tendenza ai toni scuri della voce (il gruppo di Marco nasce, non a caso, cantando blues), ma anche la capacita' di raccontare storie piccole e personali che crescono a metafora del vivere, ("Mischiami l'anima e rompimi il collo/ portami al fine ma lasciami sveglio/ siediti o mare stammi vicino / che voglio sognare fino a mattina". "Assaggiare la pioggia appena che nasce/ e per il tempo rimasto tra i nostri bicchieri/ noi di brinda cosi' viene fuori/ urla, tempesta, fulmini, esplosioni/risate accese, scoregge di barboni" - L'ombra nel letto, molto alla Paolo Conte). Insomma ascendenze nobili, buone canzoni e, ovviamente, neanche un contratto discografico.

Leon

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Mauro Pagani
Domani

Nun 2003

L’obiettività nel giudizio è faticosa, si sa. E il più delle volte, quando non la si raggiunge, è per nostra inettitudine. Stavolta però mi dico che non è giusto pensare sia solo colpa mia. Perché cavolo, Mauro, non ci puoi stare intorno tutto il tempo producendo, suonando e/o facendo suonare più di quasi tutti i buoni dischi di canzone d'autore, e poi uscirtene con un album a tuo nome. Eh no, così non si fa. Noi come facciamo? Dico, come facciamo a far finta di non conoscere le tue altre cento, mille azioni; com'è che si fa ad ascoltare questo "Domani" isolandolo dallo ieri nella Forneria, nel mar mediterraneo dal di là al di qua per la Liguria, nella soddisfazione degli ultimi Jannacci, Ranieri e Vecchioni.. Come si fa.. tanto più che ricongiungerlo con i due tuoi dischi precedenti ("Mauro Pagani" del 78 e "Passa la bellezza" del 91).. Anche te! pubblicare un disco ogni dozzina d'anni, diavolaccio!

Vabé, dai, proviamo intanto a dire almeno cosa c'è dentro: tredici canzoni, tre ospiti (Ligabue, Morgan, Raiz), un po' di rock di chitarra elettrica, un po' di canzone d'autore di chitarra acustica, un po' di elettronica di tastiere e loop, un po' di world di bouzouki e sabbie, un po' di cantato, un po' di recitato.. Un po' di tutto. E ridajje, siamo daccapo. Uhf.
Allora proviamo a prenderla dal verso dell'interpretazione: la tua voce suona più roca, la tiri qua e là quando c'è da dire senza mezzi termini come la pensi su come va il mondo; la tieni a giro minimo quando la dolenza accompagna affetti di casa e immagini cubane, per un cinema sospeso su di un lenzuolo senza età; o ancora la fai camminare come se invece di fare il cantante, facessi l'attore. Perché cantante non sei, non lo sei mai stato, un po' l'hai imparato; magari rimettendo sul piatto un paio di dischi di Gabriel e Fossati, vah.
Un'altra cosa su cui hai lavorato è senz'altro la scrittura: "Domani" ha dei gran bei testi, complimenti. Egià, si sente che hai viaggiato gli anni collaborando con gente che la penna la tiene fra due dita d'argento, e hai capito come si può fare (ché la frequentazione del talento non basta ad averne).
E vedi, proprio a proposito di parole, ricaschiamo in quel "come si fa": come da titolo (del disco e della canzone più luccicante), il concetto 'domani' ci accompagna dall'inizio alla fine ed è segno smagliante di quella tua voglia inesauribile di buttare la palla avanti spingendo il futuro, credendoci, provandoci. La fantastica scienza del 'perchennò'. Ed ecco che ci rifreghi, sì, perché una volta che s'è fatte due chiacchiere con te, una volta che ti s'è vista quella luce nelle pupille, beh, si fatica a far finta di niente e a non sorridere guardando fuori dalla finestraperta, anche noi. Soprattutto quando la si pensa allo stesso modo.

Quindi sai che ti dico, Mauro? Che me ne frego del fatto di non riuscire a prendere bene la coda di questa tua creatura, e mi do retta nel pensare che un disco a tuo nome sia come una puntina che tiene fermi, sulla bacheca della discografia di un artista, gl'infiniti fogli su cui quell'artista e chi con lui, ha preso appunti molti e diversi. Una puntina ogni tanto, di colore misto, ma precisa. Cheffaccio, la riprendo e la appoggio per un altro giro sul vinile?

Giò da Faz

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Andrea Parodi
Le piscine di Fecchio
Autoprodotto 2001

Momento positivo per la musica lariana. Dopo i Sulutumana e Davide Van De Sfroos arriva il disco d'esordio di Andrea Parodi da Cantù. Il cd, prodotto da Bocephus King, e inciso in Canada miscela canzoni che hanno le radici nel miglior cantautorato italiano, da De Andrè a De Gregori, da Guccini a Lolli, con le sonorità folk-rock tipiche della musica di oltreoceano. Nel disco suona infatti lo stesso King accompagnato dalle chitarrre di Paul Rigby, dalle percussioni di Dan Parry e John Shepp, dall' organo di Doug Fujisawa e dal basso di Darren Parris. Andrea racconta storie di casa nostra utilizzando sonorità che danno loro un certo fascino “di confine”. E così il brano di apertura "La neve nel tempo" è leggermente jazzato; "Le piscine di Fecchio" con la sua malinconia sottolineata dalla chitarra elettrica e dall'organo, è notturna e solitaria “I Rododendri della Sera”, sottolineata dalla bella voce di Amanda Butterworth in sottofondo, ricorda certe ballate suonate e cantate alla luce di un fuoco da campo e “Ad est della notte” si appoggia sul ritmo di un treno in corsa e attraversa la tristezza di un’assenza. Parodi ha costruito un ponte musicale tra le praterie nordamericane e l'erba della provincia lombarda e nel suo mondo a cavallo di due mondi ci racconta di malinconie, di sogni e di ricordi, oppure di improbabile incontro tra John Lennon e Gesù. Si misura poi con Tecumseh Valley, di Townes Van Zandt, reintitolandola "Carolina" e trasponendola tra i carrugi della vecchia Genova e Alghero e ancora con Never at all dello stesso Bocephus King, che diventa "lui non c'è più" per terminare con una scherzosa versione di "Calabrisella Mia", cantata in duetto con King, omaggio agli emigrati italiani in Canada.
Abbiamo detto della musica, curata e ottimamente eseguita; anche i testi sono interessanti e capaci di evocare immagini ed emozioni.
Qualche incertezza la si può trovare nella voce, ancora ricca di tante "e" aperte così lacustri, sulla quale Parodi deve lavorare. Nel complesso un buon esordio, con un'ottima impostazione musicale e testi interessanti. Attendiamo la crescita.

Carlotta

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Fabrizio Poggi
Turututela

"Un popolo/ mettetelo in catena/ spogliatelo/ e' ancora libero// Levategli il lavoro / levategli il passaporto/ il tavolo dove mangia/ il letto dove dorme/ e' ancora ricco// Un popolo diventa povero/ quando gli rubano / le canzoni/imparate dai padri// Allora e' perso per sempre". E quando un disco inizia con queste parole, liberamente tratte da Ignazio Buttitta, inizia con il piede giusto. Se poi si procede con una dedica a Giovanna Daffini e il cd parte con un'armonica che vola su un tappeto di percussioni per introdurre "Senti le rane che cantano" (Amore mio non piangere) , forse la canzone piu' conosciuta tra quelle cantate dalle mondine della Pianura Padana, ecco che abbiamo imboccato una strada in discesa. Una strada che corre tra l'erba, su quelle caute, cautissime discese che in Lombardia si trovano nelle campagne o sugli argini dei fiumi, dove i covoni del grano sono ammucchiati ad asciugare e a strofinare le voglie di tenerezze degli "amorosi". Quadro d'epoca? In parte si'. Ma le canzoni del disco di Fabrizio Poggi non sono di primo pelo. "Donna lombarda" risale addirittura all'epoca longobarda, mentre "La bella la va al fosso" e' di impianto medievale (senza i "ravanej remoulass, barbabietul e spinasch" che sono un'aggiunta successiva), come pure "La mamma di Rosina" (nonostante le pistole), mentre altre canzoni risalgono a inizio secolo. In mezzo, ma inserite con assoluta naturalezza vi sono alcune composizioni originali di Fabrizio Poggi ("Giovanna, la voce", "Turututela", "Gli occhi del cuore"). E' un disco che parla di "canali e nebbie tra i fossi". Di emigrazione e di teatranti, di conti e di pugnali. Fabrizio chiude con questa frase:"Amare il proprio paese non e' un merito, bensi' un bisogno: un dovere", cita Alessandro Maragliano, artista vogherese (citta' non di sole casalinghe!). Da qui gli e' nato il bisogno di concepire l'opera. Lo strano titolo, "Turututela", deriva dal nome dei cantastorie padani che, accompagnandosi con il "ghitaren" (chitarra artigianale con una sola corda), girava per i paesi, raccontando storie e favole. La favola piu' bella del disco esce dalla penna di Fabrizio pero': "Giovanna, la voce" e' dedicata a Giovanna Daffini, la "Callas dei poveri", una figura fondamentale della musica popolare italiana con Sandra Mantovani e Giovanna Marini. "Idealmente - scrive Fabrizio - la canzone e' cantata da Vittorio Carpi, bellissima persona, protagonista di una dolce e commovente storia d'amore, marito e compagno di strada di Giovanna. Queste sono le parole e forse la musica che Vittorio avrebbe usato per dedicarle una canzone". Struggente. Insomma: un disco con le palle (e con 5 stelle!), Suonato, cantato, prodotto e commentato sul libretto come dio comanda. Per tutti coloro che ritengono che la musica popolare abbia il fiato corto.

Leon

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Massimo Ranieri
Oggi o dimane
Sony music 2002

E c'è ancora chi può ritenere che gli arrangiamenti, in linea di massima, non siano fondamentali? Un nome per tutti: Francesco Guccini, principe solitario dell'arrangiamento spartano, convinto che solo le storie contino e raccontino. Il disco di cui parliamo oggi è la pietra miliare della smentita. Io non ho mai comprato un disco di Massimo Ranieri: nemmeno il mitico "Rose rosse". E credevo che sotto la lettera R della mia discoteca avrebbe continuato a restare uno spazio vuoto in corrispondenza dell'ex principe dei posteggiatori napoletani. Poi capita, chissà come, che Mauro Pagani, in trasferta napoletana, si incroci con Massimo e che Massimo abbia in preparazione uno spettacolo televisivo ("Citofonare Calone" o qualcosa di simile) all'interno del quale ha intenzione di riproporre i classici della canzone napoletana (cosa per lui consueta), ma spogliate dagli orpelli del tempo, della carica retorica o anche grottesca che, strato su strato, come una pastiera napoletana, si era poggiata in modo sempre più greve sopra quelle che erano anche splendide canzoni. Sul repertorio non c'è problema: 300 anni di storia conteranno pur qualcosa, ma come fare per rinnovare il parco e proporre versioni nuove? E qui entra in gioco Mauro Pagani con la sapienza e la maestria che già aveva dispiegato a piene mani in Creuza de Ma. Arrangiamenti ridotti all'osso, scarni, quasi disadorni: ma qui compare un oud, là una zurna tunisina, qua una korà e là un bouzouki. Poi mettiamoci fisarmonica, zarb e sabbie (perché no?), il Dmbouka e le percussioni, il cajon, le palmas e una spruzzata (non di più, sennò il sugo viene troppo forte) di chitarra flamenco. Poi mettiamo in campo una formazione di musicisti di primo piano: Mauro di Domenico alle chitarre (abituale collaboratore di Ranieri), Ellade Bandini e Ares Tavolazzi alla batteria e al basso (toh, la sezione ritmica di Guccini! Sbaglio o suona diversa qui?), Arnaldo Vacca a tutti i tipi di percussioni conosciute, Paolo Jannacci alla fisarmonica (il figlio di Enzo). Mauro Pagani suona quasi tutto il resto. In due canzoni aggiungiamo anche una sezione di archi, ma usiamola come dio comanda. La voce? Beh, per la voce c'è Massimo Ranieri. Glielo riconosciamo che la sua usare? Sì, e in questo caso ancora meglio, perché non spinge mai, non esagera, non vuole strafare, offre un'interpretazione misurata e assolutamente intensa. Ma, un po' a sorpresa, dove non ce lo si aspetta, gli aggiungiamo qualche coro? Un paio di voci femminili? E così cuoco Pagani prende i soliti pesci del Golfo di Napoli e li cucina in questa nuova pastella sonora. Ne esce una "Spingola francese" in salsa Graceland (memorabile!), una "Nuttata e sentimento" per soli bouzouki e mantra dagli arcani echi greci, tanto per ricordarci che Nea-Polis è nata come "Città nuova" per i greci, mentre Caravan Petrol affonda i suoi ritmi nelle sabbie del deserto, perdendo parte della carica ritmica, riacquistando in atmosfera e "O surdato 'nnamurato", con accompagnamento di soli violini, perde il suo tono da baraccone, da fine pranzo di nozze e riguadagna una sua pensosità, fino ad arrivare ai due punti più alti del disco: Maruzzella, con una grande interpretazione vocale e la musica discreta, di sfondo, ma non un fondale dipinto da sceneggiata: lo sfondo quello vero e classico di Posillipo con tanto di pino a ombrello e rete dei pescatori e paranze in mare e "Reginella". Ma perché dimenticare "Voce è notte?" o la finale "O guarracino" con le incursioni esotiche della zurna di Pagani? Oppure "Marinariello" dove la voce di Lucia Minetti duetta con Massimo? Insomma un'ottimo disco che conferma quella tendenza della musica napoletana contemporanea di contaminazione con le zone contigue del mediterraneo, come conferma l'incursione della voce araba di Badara Seack in "Rondinella", quella voglia di apertura e di avventura che fa sì che proprio da Napoli partano i messaggi più aperti verso altre culture. Sarà un caso che è una delle poche grandi città che le destre non sono riuscite a prendere? Non lo so, ma tra Daniele Sepe, La NCCP, i Medinsud, Rua Port'Alba e ora anche Massimo Ranieri/Mauro Pagani il futuro sembra roseo e il passato… sembra meno passato. Un unico appunto: il libretto. Caratteristica della Sony Music è risparmiare sulla carta. Anche qui solo tre fogli smilzi che, meno male, ci danno la lista degli strumenti suonati nei vari brani, ma non una parola sul progetto generale né sulla ricerca storica che pure Mauro di Domenico ha compiuto ( i brani, in copertina, affianco al titolo) portano la data di composizione: O Guarracino è del 1700, quattro delle canzoni proposte sono di fine '800, otto risalgono ai primi anni del '900 e solo tre si arrampicano attorno alla metà del secolo scorso, con il record di giovinezza per Caravan Petrol che ha "solo" 42 anni. Forse si potevano raccontare i motivi delle scelte o le storie delle canzoni: ci sarebbe voluto un libro, ma chi ha paura di leggere?
Leon

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