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![]() Ratatuie Nota, 1999 (1° edizione 1993) "Percorsi
di musica sghemba". Era un titolo degli Yo Yo Mundi, ma è
anche il percorso con cui la musica ci gira attorno. Non si riesce mai
ad identificar el’itinerario da cui ci cadrà addosso e quindi
nemmeno l’impatto, che dipende dall’angolo di incidenza, dalla
velocità relativa, dalla rifrazione della luce, ma soprattutto
dal piacere istantaneo. Può quindi capitare che un disco stia in
giro per 10 anni prima di arrivare, in modo sghembo, sul mio lettore.
E se a qual punto piace? Abbiamo perso 10 anni? “Ratatuie”
dei Mitili Flk ha seguito questa strada. Meno male che, alla fine, è
arrivato. (Ps: Ratatuie significa: ciò che si scarta, che si getta
via perché inutile) |
Che
dire? A me Gianna Nannini è sempre stata simpatica. Poi, dopo
questa autoidentificazione con Pippi Calzelunghe cosa manca per farla
assurgere al mito? |
Può
non piacere a tutti. Il suono forse non è più così
innovativo come poteva sembrare un tempo. E le contaminazioni tra rock
e musica popolare hanno smesso di essere novità dai tempi dei
Fairport Convention o tra folk e punk dai tempi dei Pogues. Il clima
in cui ci aggiriamo è quello. Gighe, ballate, combat-folk. Testi
impegnati e musiche popolari. Ma l'esito, questa volta, a me pare interessante.
È chiaro che è questione di "esserci" o meno,
di sentirlo o meno. Un raffinato jazzofilo di destra si alzerebbe e
scodellerebbe il suddetto cd nel cestino dei rifiuti. Non rientrando
in nessuna delle categorie precedenti invece io lo passo e lo ripasso
sul lettore, per capirlo meglio. I Ned Ludd sono un nucleo stabile di
5 persone, che si articola intorno a Gianluca Spirito (autore di testi
e musiche e voce) e che con una decina di collaboratori hanno messo
in piedi quasi 70 minuti di musica (un cd bello pieno!) in cui mandolini,
bodhran, bouzoki, cornamuse, violini, fisarmoniche e cori sostengono
come ampio tappeto sonoro, testi di denuncia sociale (uno ispirato anche
a Frederich Engels!) e squarci poetici. Due righe soltanto per spiegare
chi sia stato Ned Ludd e come da lui derivi il "luddismo":
Chi era Ned Ludd? Era un operaio inglese che nel 1779 fece a pezzi un
telaio per lui "troppo" moderno, perché quel telaio
era il simbolo delle nuove tecnologie che gli rubavano il lavoro. Da
lì in poi "luddismo" sta per indicare un rifiuto acritico
della modernizzazione, uno scaricare sulle macchine la colpa dello stato
operaio. Personaggio romantico e perdente in partenza … e quindi
proprio per questo dannato alla simpatia. Dal titolo del cd "A
zero ore", fino al titolo di alcuni brani ("La danza della
disoccupazione", "Se lavora pè vivere e se vive pè
lavorà" "Uomini socialmente inutili") è
facile risalire alle dinamiche trattate. Se poi aggiungiamo che nel
sito il gruppo si definisce "no profit" , il quadro forse
è completo. Cosa convince e cosa no? A me piacciono le musiche.
Forse non innovative, no, ma suonate con passione e con competenza.
Ogni suono trova la sua ragione d'esistere. E l'atmosfera emerge da
subito e non vi abbandona nemmeno alla fine dell'estenuante viaggio
(forse la durata è un limite). Altro limite l'interpretazione
vocale non sempre a livello con quella musicale, ma la voce di Gianluca
Spirito ha comunque personalità e vivacità. Mi ricordano,
tra i gruppi ascoltati di recente, i Ratti della Sabina (anche i Ned
Ludd operano vicino a Roma), forse con un po' meno di carica poetica,
ma con la stessa carica vitale. Insomma: disco schierato.Ascoltatelo
solo se vi piace il genere, se avete voglia di muovere le gambe e non
tenere a freno il cervello |
Disco
a due, tre, molte facce. Disco esaltante in alcuni passaggi e deprimente
in altri. Ogni tanto stai per urlare "al capolavoro" e il brano
dopo come minimo ti annoia. Il risultato complessivo è più
che buono anche perché "Accussì", "Lanterna
magica", "Lontano da te" e, soprattutto, "gli occhi
di Salgado", dedicata alle immagini del famoso fotografo, sono momenti
di intensa suggestione e di pura poesia. Quando invece in cui si ripiega
sulla tarantellata sinceramente si fa fatica a reggere e le canzoni appaiono
di una lunghezza infinita. Più in generale i momenti musicali sono
la carta vincente: il disco è suonato benissimo, con uno splendido
lavoro della chitarre e delle percussioni di Corrado Sfogli e Carmine
Bruno rispettivamente, mentre la voce di Fausta Vetere, per quanto velata
da un filo di polvere degli anni, è sempre fascinosa. I brani lenti
penetrano sotto pelle, raggiungendo strati che quelli più mossi
non riescono a toccare: sinceramente i 3'30" di "Chi è
devoto" si fa fatica a reggerli, i 4'25" di "Stann' arrivando"
tutti su un ritmo binario fanno l'effetto della Corazzata Potemkin (dù
palle!) tranne che nei 40 secondi superbi in cui canta Fausta Vetere e
"Il carro e la luna" è materiale già mandato a
memoria. |
Marco Panattoni e' bravo. E ovviamente non trova un cane che gli faccia fare un disco. Ho tra le mani questo "progetto di cd" che risale al febbraio 2001 dove, assieme a Marco (pianoforte e voce), suona una band di cinque elementi, piu' Freddy Bertelli all'armonica e la Banda musicale di Porcari. L'impasto musicale che ne esce, fortemente impregnato da un hammond che da' un tono "vintage" al tutto, assomiglia ad alcune cose di Capossela. Sotto tutto un'anima di tango, sensuale e calda al servizio di parole mai banali e di storie da ascoltare. Come tutti coloro che cercano di emergere dal sottobosco musicale, Marco ha partecipato (e vinto) un concorso, Ma non uno da poco: il Premio Ciampi. A cui lui, lucchese, ha partecipato con una cover del grande livornese (e chissa' quanto gli deve essere costato in termini di campanilismo!): "Il vino", resa in una versione superba, notturna, mazzata, fumosa, piacevolmente estenuata, quasi "fane'". Ma con Ciampi il contatto e' tutto li'. Dal punto di vista del cantato, della voce, il modello forse e' piu' Francesco Guccini, a cui lo possono avvicinare la mole e una certa tendenza ai toni scuri della voce (il gruppo di Marco nasce, non a caso, cantando blues), ma anche la capacita' di raccontare storie piccole e personali che crescono a metafora del vivere, ("Mischiami l'anima e rompimi il collo/ portami al fine ma lasciami sveglio/ siediti o mare stammi vicino / che voglio sognare fino a mattina". "Assaggiare la pioggia appena che nasce/ e per il tempo rimasto tra i nostri bicchieri/ noi di brinda cosi' viene fuori/ urla, tempesta, fulmini, esplosioni/risate accese, scoregge di barboni" - L'ombra nel letto, molto alla Paolo Conte). Insomma ascendenze nobili, buone canzoni e, ovviamente, neanche un contratto discografico. |
L’obiettività nel giudizio è faticosa, si sa. E il più delle volte, quando non la si raggiunge, è per nostra inettitudine. Stavolta però mi dico che non è giusto pensare sia solo colpa mia. Perché cavolo, Mauro, non ci puoi stare intorno tutto il tempo producendo, suonando e/o facendo suonare più di quasi tutti i buoni dischi di canzone d'autore, e poi uscirtene con un album a tuo nome. Eh no, così non si fa. Noi come facciamo? Dico, come facciamo a far finta di non conoscere le tue altre cento, mille azioni; com'è che si fa ad ascoltare questo "Domani" isolandolo dallo ieri nella Forneria, nel mar mediterraneo dal di là al di qua per la Liguria, nella soddisfazione degli ultimi Jannacci, Ranieri e Vecchioni.. Come si fa.. tanto più che ricongiungerlo con i due tuoi dischi precedenti ("Mauro Pagani" del 78 e "Passa la bellezza" del 91).. Anche te! pubblicare un disco ogni dozzina d'anni, diavolaccio! Vabé,
dai, proviamo intanto a dire almeno cosa c'è dentro: tredici canzoni,
tre ospiti (Ligabue, Morgan, Raiz), un po' di rock di chitarra elettrica,
un po' di canzone d'autore di chitarra acustica, un po' di elettronica
di tastiere e loop, un po' di world di bouzouki e sabbie, un po' di cantato,
un po' di recitato.. Un po' di tutto. E ridajje, siamo daccapo. Uhf. Quindi sai che ti dico, Mauro? Che me ne frego del fatto di non riuscire a prendere bene la coda di questa tua creatura, e mi do retta nel pensare che un disco a tuo nome sia come una puntina che tiene fermi, sulla bacheca della discografia di un artista, gl'infiniti fogli su cui quell'artista e chi con lui, ha preso appunti molti e diversi. Una puntina ogni tanto, di colore misto, ma precisa. Cheffaccio, la riprendo e la appoggio per un altro giro sul vinile? |
Momento
positivo per la musica lariana. Dopo i Sulutumana e Davide Van De Sfroos
arriva il disco d'esordio di Andrea Parodi da Cantù. Il cd, prodotto
da Bocephus King, e inciso in Canada miscela canzoni che hanno le radici
nel miglior cantautorato italiano, da De Andrè a De Gregori,
da Guccini a Lolli, con le sonorità folk-rock tipiche della musica
di oltreoceano. Nel disco suona infatti lo stesso King accompagnato
dalle chitarrre di Paul Rigby, dalle percussioni di Dan Parry e John
Shepp, dall' organo di Doug Fujisawa e dal basso di Darren Parris. Andrea
racconta storie di casa nostra utilizzando sonorità che danno
loro un certo fascino “di confine”. E così il brano
di apertura "La neve nel tempo"
è leggermente jazzato; "Le
piscine di Fecchio" con la sua malinconia sottolineata dalla
chitarra elettrica e dall'organo, è notturna e solitaria “I
Rododendri della Sera”, sottolineata dalla bella voce di Amanda
Butterworth in sottofondo, ricorda certe ballate suonate e cantate alla
luce di un fuoco da campo e “Ad
est della notte” si appoggia sul ritmo di un treno in corsa
e attraversa la tristezza di un’assenza. Parodi ha costruito un
ponte musicale tra le praterie nordamericane e l'erba della provincia
lombarda e nel suo mondo a cavallo di due mondi ci racconta di malinconie,
di sogni e di ricordi, oppure di improbabile incontro tra John Lennon
e Gesù. Si misura poi con Tecumseh Valley, di Townes Van Zandt,
reintitolandola "Carolina"
e trasponendola tra i carrugi della vecchia Genova e Alghero e ancora
con Never at all dello stesso Bocephus King, che diventa "lui
non c'è più" per terminare con una scherzosa
versione di "Calabrisella
Mia", cantata in duetto con King, omaggio agli emigrati italiani
in Canada. |
"Un popolo/ mettetelo in catena/ spogliatelo/ e' ancora libero// Levategli il lavoro / levategli il passaporto/ il tavolo dove mangia/ il letto dove dorme/ e' ancora ricco// Un popolo diventa povero/ quando gli rubano / le canzoni/imparate dai padri// Allora e' perso per sempre". E quando un disco inizia con queste parole, liberamente tratte da Ignazio Buttitta, inizia con il piede giusto. Se poi si procede con una dedica a Giovanna Daffini e il cd parte con un'armonica che vola su un tappeto di percussioni per introdurre "Senti le rane che cantano" (Amore mio non piangere) , forse la canzone piu' conosciuta tra quelle cantate dalle mondine della Pianura Padana, ecco che abbiamo imboccato una strada in discesa. Una strada che corre tra l'erba, su quelle caute, cautissime discese che in Lombardia si trovano nelle campagne o sugli argini dei fiumi, dove i covoni del grano sono ammucchiati ad asciugare e a strofinare le voglie di tenerezze degli "amorosi". Quadro d'epoca? In parte si'. Ma le canzoni del disco di Fabrizio Poggi non sono di primo pelo. "Donna lombarda" risale addirittura all'epoca longobarda, mentre "La bella la va al fosso" e' di impianto medievale (senza i "ravanej remoulass, barbabietul e spinasch" che sono un'aggiunta successiva), come pure "La mamma di Rosina" (nonostante le pistole), mentre altre canzoni risalgono a inizio secolo. In mezzo, ma inserite con assoluta naturalezza vi sono alcune composizioni originali di Fabrizio Poggi ("Giovanna, la voce", "Turututela", "Gli occhi del cuore"). E' un disco che parla di "canali e nebbie tra i fossi". Di emigrazione e di teatranti, di conti e di pugnali. Fabrizio chiude con questa frase:"Amare il proprio paese non e' un merito, bensi' un bisogno: un dovere", cita Alessandro Maragliano, artista vogherese (citta' non di sole casalinghe!). Da qui gli e' nato il bisogno di concepire l'opera. Lo strano titolo, "Turututela", deriva dal nome dei cantastorie padani che, accompagnandosi con il "ghitaren" (chitarra artigianale con una sola corda), girava per i paesi, raccontando storie e favole. La favola piu' bella del disco esce dalla penna di Fabrizio pero': "Giovanna, la voce" e' dedicata a Giovanna Daffini, la "Callas dei poveri", una figura fondamentale della musica popolare italiana con Sandra Mantovani e Giovanna Marini. "Idealmente - scrive Fabrizio - la canzone e' cantata da Vittorio Carpi, bellissima persona, protagonista di una dolce e commovente storia d'amore, marito e compagno di strada di Giovanna. Queste sono le parole e forse la musica che Vittorio avrebbe usato per dedicarle una canzone". Struggente. Insomma: un disco con le palle (e con 5 stelle!), Suonato, cantato, prodotto e commentato sul libretto come dio comanda. Per tutti coloro che ritengono che la musica popolare abbia il fiato corto. |
E
c'è ancora chi può ritenere che gli arrangiamenti, in
linea di massima, non siano fondamentali? Un nome per tutti: Francesco
Guccini, principe solitario dell'arrangiamento spartano, convinto che
solo le storie contino e raccontino. Il disco di cui parliamo oggi è
la pietra miliare della smentita. Io non ho mai comprato un disco di
Massimo Ranieri: nemmeno il mitico "Rose rosse". E credevo
che sotto la lettera R della mia discoteca avrebbe continuato a restare
uno spazio vuoto in corrispondenza dell'ex principe dei posteggiatori
napoletani. Poi capita, chissà come, che Mauro Pagani, in trasferta
napoletana, si incroci con Massimo e che Massimo abbia in preparazione
uno spettacolo televisivo ("Citofonare Calone" o qualcosa
di simile) all'interno del quale ha intenzione di riproporre i classici
della canzone napoletana (cosa per lui consueta), ma spogliate dagli
orpelli del tempo, della carica retorica o anche grottesca che, strato
su strato, come una pastiera napoletana, si era poggiata in modo sempre
più greve sopra quelle che erano anche splendide canzoni. Sul
repertorio non c'è problema: 300 anni di storia conteranno pur
qualcosa, ma come fare per rinnovare il parco e proporre versioni nuove?
E qui entra in gioco Mauro Pagani con la sapienza e la maestria che
già aveva dispiegato a piene mani in Creuza de Ma. Arrangiamenti
ridotti all'osso, scarni, quasi disadorni: ma qui compare un oud, là
una zurna tunisina, qua una korà e là un bouzouki. Poi
mettiamoci fisarmonica, zarb e sabbie (perché no?), il Dmbouka
e le percussioni, il cajon, le palmas e una spruzzata (non di più,
sennò il sugo viene troppo forte) di chitarra flamenco. Poi mettiamo
in campo una formazione di musicisti di primo piano: Mauro di Domenico
alle chitarre (abituale collaboratore di Ranieri), Ellade Bandini e
Ares Tavolazzi alla batteria e al basso (toh, la sezione ritmica di
Guccini! Sbaglio o suona diversa qui?), Arnaldo Vacca a tutti i tipi
di percussioni conosciute, Paolo Jannacci alla fisarmonica (il figlio
di Enzo). Mauro Pagani suona quasi tutto il resto. In due canzoni aggiungiamo
anche una sezione di archi, ma usiamola come dio comanda. La voce? Beh,
per la voce c'è Massimo Ranieri. Glielo riconosciamo che la sua
usare? Sì, e in questo caso ancora meglio, perché non
spinge mai, non esagera, non vuole strafare, offre un'interpretazione
misurata e assolutamente intensa. Ma, un po' a sorpresa, dove non ce
lo si aspetta, gli aggiungiamo qualche coro? Un paio di voci femminili?
E così cuoco Pagani prende i soliti pesci del Golfo di Napoli
e li cucina in questa nuova pastella sonora. Ne esce una "Spingola
francese" in salsa Graceland (memorabile!), una "Nuttata
e sentimento" per soli bouzouki e mantra dagli arcani echi
greci, tanto per ricordarci che Nea-Polis è nata come "Città
nuova" per i greci, mentre Caravan
Petrol affonda i suoi ritmi nelle sabbie del deserto, perdendo parte
della carica ritmica, riacquistando in atmosfera e "O
surdato 'nnamurato", con accompagnamento di soli violini, perde
il suo tono da baraccone, da fine pranzo di nozze e riguadagna una sua
pensosità, fino ad arrivare ai due punti più alti del
disco: Maruzzella, con
una grande interpretazione vocale e la musica discreta, di sfondo, ma
non un fondale dipinto da sceneggiata: lo sfondo quello vero e classico
di Posillipo con tanto di pino a ombrello e rete dei pescatori e paranze
in mare e "Reginella".
Ma perché dimenticare "Voce
è notte?" o la finale "O
guarracino" con le incursioni esotiche della zurna di Pagani?
Oppure "Marinariello"
dove la voce di Lucia Minetti duetta con Massimo? Insomma un'ottimo
disco che conferma quella tendenza della musica napoletana contemporanea
di contaminazione con le zone contigue del mediterraneo, come conferma
l'incursione della voce araba di Badara Seack in "Rondinella",
quella voglia di apertura e di avventura che fa sì che proprio
da Napoli partano i messaggi più aperti verso altre culture.
Sarà un caso che è una delle poche grandi città
che le destre non sono riuscite a prendere? Non lo so, ma tra Daniele
Sepe, La NCCP, i Medinsud, Rua Port'Alba e ora anche Massimo Ranieri/Mauro
Pagani il futuro sembra roseo e il passato… sembra meno passato.
Un unico appunto: il libretto. Caratteristica della Sony Music è
risparmiare sulla carta. Anche qui solo tre fogli smilzi che, meno male,
ci danno la lista degli strumenti suonati nei vari brani, ma non una
parola sul progetto generale né sulla ricerca storica che pure
Mauro di Domenico ha compiuto ( i brani, in copertina, affianco al titolo)
portano la data di composizione: O Guarracino è del 1700, quattro
delle canzoni proposte sono di fine '800, otto risalgono ai primi anni
del '900 e solo tre si arrampicano attorno alla metà del secolo
scorso, con il record di giovinezza per Caravan Petrol che ha "solo"
42 anni. Forse si potevano raccontare i motivi delle scelte o le storie
delle canzoni: ci sarebbe voluto un libro, ma chi ha paura di leggere? |