La
compagnia dei cani scossi non mi scuote più di tanto
di Leon Ravasi
La
prima sensazione con Folco Orselli è di mandarlo a fare in
culo, perché è un maleducato. La seconda sensazione
è di rimandarlo fare in culo perché è un clone
nemmeno troppo geniale e completo-di-cappellino-ciancicato di Vinicio
Capossela (anche se lui pensa di essere Tom Waits). La terza sensazione,
con l’ascolto, è che invece qualcosa di buono possa
anche esserci e non tutto sia da buttare. La quarta sensazione,
purtroppo, rimanda alla prima.
Allora, partiamo dall’inizio: come definireste voi uno che
sulla copertina del suo unico disco solista scrive: “Ps: questo
disco è dedicato anche a tutti quelli che non hanno creduto
e che hanno criticato, a volte in modo saccente e tronfio, la mia
musica: lasciate che vi dica con tutta la profondità della
mia cavernosa voce di andare profondamente e calorosamente a fare
in culo, ci vedremo presto e vi farò rimangiare tutte in
un boccone le stronzate che avete detto, sono sicuro che vista la
vostra essenza di squallidi leccaculo e servi del potere, sarete
così meschini da far finta che vi piaccia, annuendo e ringraziandomi
di farvi rimangiare la vostra stessa merda”. Complimenti all’eleganza!
E l’invito di andare a fare in culo gli ritorna pari pari
perché parlerò male, “con tono saccente e tronfio”,
del suo disco di merda.
Capitolo due:
cosa ne dite di uno che in un paranoico discorso di presentazione
a inizio disco informa come prima cosa di essere alto “un
metro e ottantadue centimetri”? Io sono alto un metro e ottantasette.
Ne frega a qualcuno? Ma se almeno il disco fosse un capolavoro!
Se almeno avessimo davanti il genio dimenticato! No, signori, abbiamo
davanti solo Folco Orselli, per qualche strano motivo che mi sfugge,
gradito a Giangilberto Monti che lo ha inserito nel suo dizionario
dei cantautori (lasciando fuori fior di autori come Luigi Maieron
o i Sulutumana o Giovanni Rubbiani e i Caravan de Ville) e che lo
ripropone nel suo Chansonnier. Mah, misteri della vita!
Capitolo tre:
esistono le canzoni. Ora, a parte il fastidio personale di chi nel
suo booklet scrive “ha” voce del verbo avere senza la
“h”(“Il crogiuolo”) e che si diverte con
rime come “sciampagna/bagna” o “Picaciù/più
di più” o con frasi poetiche come “conta quanto
sei durato/ non la gioia data a lei” oppure “Ma in fondo
vivo/ vivo vivo son vivo / e non sarò certo un santo / ma
nemmeno un estinto/ ed ora voglio cantare / voglio far divertire
/ proprio mi fa morire”, il disco ha una sua porca esuberanza
che in qualche momento ti attira ed ha anche un paio, non di più,
di momenti riflessivi e pensosi.
Per il resto
è la vitalità del bere fino a strafarsi, delle notti
a buttarsi via, delle puttane etc etc etc. Che se uno avesse voglia
di guardare un centimetro più in là del suo ombelico
forse non ci sarebbe poi niente di male. Ma quando Folco ha voglia
di uscire dal guscio e dall’ala protettiva di Tom e Vinicio
in realtà qualcosa di davvero buono lo tira anche fuori,
più musicalmente che sotto il profilo dei testi. “Il
Lampione”, “Davanti al mare” e “Bell’occhio”
il trittico finale che ho io sul cd a disposizione (ma la scaletta
ufficiale dice altrimenti) è tutto di qualità. “Il
lampione” è una lenta melodia pianistica che in più
di 7 minuti racconta la storia di una puttana. Diciamo una sorta
di Bocca di rosa aggiornata al 2002.
“Bell’occhio”
è invece il brano letterariamente scritto meglio: storia
romanzata di un personaggio che può dire di sé “di
ogni ne ho passate, odor di ponti / galera vino vecchio e malattia
/ ma le monete mie si chiaman vento / fiorir di monti all’alba
libertà” e può concludere proclamando: “riprendo
il mio vagare a tutto tondo / alzando il guardo a Dio son vagabondo”.
Insomma, riuscisse ad affrancarsi da Tom Vinicio e a mandare meno
a casaccio a fare in culo, Orselli potrebbe anche aver qualcosa
da dire. Come dire: restiamo ad aspettare.
Folco
Orselli e
la Compagnia dei Cani Sciolti
La stirpe di Caino
Caravanserraglio - 2002
Nei negozi di dischi o sul sito
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aggiornamento: 25-03-2004 |