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Paolo Conte: piccola biografia critica

Pasta diva
(Paolo Conte)

Pasta diva, pasta diva
hai del sol il bel calor
del mare, il sale
la lussuria al pomodoro
al fuoco rosso del Vesuvio,
al fuoco verde del basilico,
lo sai, lo sai, lo sai, lo sai, tu,
Pasta diva
sai che Parigi proverà
la bella Napoli di qua...

Fosti diva, fosti diva
eri la divina tra le stelle,
il palcoscenico traballa
sotto li peso dei talento e
del silenzio del tuo fascino,
lo sai, lo sai, lo sai, lo sai, lo sai,
lo sai, lo sai,... tu
fosti diva,
ritorna diva ancora per noi
la bella diva che tu sei...

 

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Nel nuovo millennio il cantautore realizza una “cosa” di grande valore artistico che, come dirà un critico americano, farà di Conte un “traghettatore estetico” dal Novecento al futuro. L’opera è “Razmataz” e dimostra, inequivocabilmente, la genialità del suo autore perché manifesta l’immensa fantasia, la cultura, il senso di libertà, la naturale eleganza, la professionalità, l’instancabilità e la preziosa capacità di percepire in ogni cosa le essenzialità che fanno le differenze. "Razmataz" è, come si dice oggi, un prodotto multimediale, interattivo, d’avanguardia si direbbe, se esistesse ancora l’avanguardia. Meglio ancora sarebbe dire multiplo. C’è il Razmataz in DVD “con oltre due ore di storyboard sonorizzato, musicato, narrato e recitato” C’è il cd comprendente 18 tracce, estrapolate dal dvd, che perlustrano generi musicali disparati, da quelli squisitamente contiani all’opera lirica. C’è il Razmataz dei concerti che fanno conoscere ai più questa particolare vaudeville. Infine (ma primo come concepimento) c’è il Razmataz realizzato nelle più frequentate lingue europee che si compone di un centinaio di tavole pittoriche (concretizzate con svariate tecniche: dal carboncino alla tempera e via dicendo) e di coordinazioni tra il visto e l’ascoltato. Banalizzando, si può dire che è un musical ambientato nella Parigi del primo Novecento, la cui protagonista è una ballerina africana di nome Razmataz che arriva al successo per poi sparire misteriosamente. Al di là della storiella c’è, però, la realizzazione tecnica dell’opera che avviene con la disposizione di più proiettori disposti in luoghi diversi e che fanno parte di un vero tragitto audiovisivo. Nelle prime rappresentazioni (in testa Cannes nel 2001) era presente sul luogo finanche un’orchestra ed una voce fuori campo, entrambe a commentare le opere pittoriche di Conte che riproducevano i personaggi della storia e le loro azioni. Un progetto maestoso, quindi, coltivato in trenta anni e che non è stato apprezzato proprio perché ha pochissimo di popolare e di conseguenza comprensibile (leggi apprezzabile) solo da un pubblico in forte odore di ampia cultura. In una pausa lavorativa, siamo nel 2003, è edito “Reveries” che non ha alcuna dote se non quella di contenere l’omonimo brano, fino ad allora solo in versione live. Intanto l’avvocato prende un’altra laurea, questa volta honoris causa, e piace citare l’episodio per via dell’argomento della lectio doctoralis : “I tempi dell’ispirazione: il pomeriggio”. E sicuramente un bel pomeriggio deve avergli ispirato “Elegia”, disco del 2004, perché vi si ritrova il Conte essenziale e mesto al quale ci ha ambientati, ma che non può esser messo tra i migliori. Certo torna il Mocambo ("La nostalgia del Mocambo") con “quelli del ‘73”, ricompare l’autobiografismo che, stavolta, si serve del passato per raccontare il presente, “la memoria è incantata” a unire piccoli tratti, come sempre solo abbozzati, di storie e di sentimenti. Il pezzo che dà il titolo all’album è un pianoforte introverso ed un violoncello romantico ma non zuccherino. "Chissà" è l’ennesima ballata ad effetto che il piano frugale scarnifica. Piano che s’appoggia asciutto ad una languida fisarmonica nella surreale "Il regno del tango". Lamentosa e poco intrigante è "La casa cinese" se non fosse per il fagotto ed il corno francese. Seri i testi di "India" (il moderno può travolge ma non annientare) e di "Frisco" (San Francisco che fa il verso ad antiche città come Babilonia), felpato (di nero?) quello di "Bamboolah". Faceta, ma amara, "La vecchia giacca nuova". Insomma un’opera dall’eleganza indubbia che ripropone in toto i temi contiani, ma che lo fa dominata dalla disillusione e dalla preoccupazione per il futuro ("Avevo una passione per la musica/di ruggine/nerastra tinta a caldo di caligine/metropoli/le tentazioni andavano e venivano/cosa farò di me?"). D’altra parte l’elegia non è di per sé un “componimento improntato a motivi di confessione autobiografica e di sfogo sentimentale”? Nel 2005, un dvd (edito anche in cd: "Paolo Conte Live Arena di Verona") registrato precisamente all’Arena di Verona. Sono presenti Conte e la sua band, rigorosamente in smoking, un inedito ("Cuanta pasión"), un pubblico in visibilio e 30 anni della migliore musica italiana d’autore. Dell’ultimissimo Conte si sa che è tornato a scrivere per Celentano. Sua è "L’indiano", inserita nella colonna musica della trasmissione televisiva “Rockpolitik”. Del prossimo Conte si parla, per sua stessa ammissione, di una collaborazione con gli Avion Travel. Di conseguenza, noi ci fermiamo qui ad aspettiamo.


di MariaLucia Nagni (Aprile)
A dare l’incipit alla storia contiana ci pensa Lilli Greco (uno dei quattro cani per strada di De Gregori) nel 1974. In verità, Conte comincia a scrivere canzoni che delineano già troppo nettamente quel che sarà il suo modo di fare musica ed in giro non ci sono cantanti adatti ad interpretare quel tipo di brani tanto singolari. Così nasce il primo album: “Paolo Conte- 1974” che propone, con una bella copertina che egli stesso disegna, undici canzoni tra le quali una riproposta: "Onda su onda", già cantata da Lauzi; due successi: "La fisarmonica di Stradella" e "Una giornata al mare"; il primo brano di quella che diverrà la tetralogia del Bar Mocambo, "Sono qui con te sempre più solo" (le altre tre sono "La ricostruzione del Mocambo", "Gli impermeabili" e "La nostalgia del Mocambo"). L’anno dopo un altro album, un altro “Paolo Conte- 1975 ”, simile al primo per impronta, accoglie tre bellissime canzoni: "La Topolino amaranto", "Genova per noi" e la già citata "La ricostruzione del Mocambo". I due album sono strettamente legati tra loro e denunciano chiaramente la sua passione per il cinema e per le arti figurative del ‘900. Infatti, ascoltandolo, non si può non pensare ai film di Fellini ovvero a certe tele astratte (i suoi pittori preferiti transitano nelle aree di Campigli o di certi espressionisti americani sul tipo di De Kooning) che cristallizzano la provincia nei gesti e nell’immobilismo di personaggi descritti con visione ironica ed impietosa, ma anche con tratti indulgenti che un evidente autobiografismo consente. I due album hanno in comune finanche la nitidezza strumentale, ridotta al minimo ma già corroborata dalla sua particolarissima voce.

Nel ‘79, dopo quattro anni sicuramente meditativi, esce “Un gelato al limon”, anello di congiunzione tra preistoria e storia. La voce è ancora scollegata ma la musica assume sincere densità (suona la PFM) latino-americane ("Blu Tangos" e "Sud America") e crea piccoli caroselli più disincantati, i testi prendono un’autonomia ("La donna d’inverno", "Arte", "Rebus") abbandonando la descrizione più o meno autobiografica ("Angiolino", "Dal loggione", "Uomo camion") per concedersi alla normalità delle sensazioni.. I brani più famosi sono la title track e la mitica "Bartali" (si racconta che il famoso ciclista incontrò Conte, si complimentò con lui per la canzone, ma gli disse che la preferiva cantata da Jannacci!). La peculiarità dell’album, però, sta nel fatto che apre le porte al “jive", vale a dire a quel particolare linguaggio gergale composto da suoni ripetuti che intervallano il cantato vero e proprio.. Dallo za-za-ra-zzaz di "Bartali" al du-du-du-du di "Via con me" saranno spesso presenti in Conte.

Sebbene sia fondamentale conoscere i tre primi album dell’avvocato, la sua vera storia di autore ed interprete sui generis comincia, nel 1981, con “Paris Milonga”. Opera eccellente nella musica, che s’allarga ad ospitare l’orchestra e che si insaporisce di jazz e swing dominanti che, però, non impoveriscono ritmi paralleli dal passo latino-americano come il tango, il paso doble, jive o fandango. Opera eccellente nei testi, che lo incoronano re dei rebus musicali. Il periodare si fa leggere con semplicità, così come è semplice guardare la figura che questo gioco enigmistico propone. La “storiella” narrata nella canzone ha una linearità elementare. Tuttavia, se si riesce ad interpretare, amalgamando testo e musica, la soluzione del rebus incanta. Le parole perdono la banalità del loro costrutto grammaticale ed assumono un valore stilistico che trascende la narrazione e concede, a chi ascolta, il privilegio di individuare emozioni in un bel coinvolgimento dei cinque sensi. Basti pensare a "Alle prese con una verde Milonga". E poi al leggero e brillante intrigo di "Via con me". Nascosto dietro il pianoforte, Conte incurva la voce in un’insenatura concedendo lentezza emotiva a brani quali "Un’altra vita", "Parigi", "Blue Haway". In sostanza, quindi, questo è l’album in cui sono dichiarati tutti i caratteri del suo repertorio a venire. Pareva che di più non si potesse fare. Invece, il baffo sornione, l’anno seguente (1982), fa il bis con “Appunti di viaggio”. Otto incontestabili chicche che si spugnano in un perfetto cocktail di suoni e parole. Dalla gherminella della chitarra di "Diavolo rosso" alla rumba jazzata di "Dancing". Dalla mitezza narrativa di "Nord" all’implicita atmosfera da Cotton Club di "Lo zio". Dal sottinteso ragtime (altri ci leggono anche Gershwin) di "Fuga all’inglese" al crescendo melodico, lucidato da un sax prezioso, di "Hemingway" e fino alle non minori "La frase" e "Gioco d’azzardo", l’album vitalizia Paolo Conte della totale ammirazione sia dei suoi fans sia della critica più vigile.

Tocca poi al terzo album che porta solo il suo nome: “Paolo Conte- 1984”. Come “Un gelato al limon” aveva, in qualche modo, ricapitolato i primi due album dell’artista, così questo lavoro del 1984 riepiloga i due or ora considerati. Per ora si chiude la trilogia dei mocamberos con "Gli impermeabili" (l’ultimo suo album , come s’è detto, aggiungerà il quarto brano) e degli uomini-camion lasciando il posto agli uomini-scimmia ("Macaco" e "L’avance"). Ancora dialoghi tra sax e piano ("Come mi vuoi?", "Chiunque") o piano e vibrafono, come la strumentale "The music, all?". Ancora swing ("Come- di") ed una marinettiana "Simpati-simpatia". Ancora certa pigrezza d’amore nella bellissima ballata "Sparring partner". Su tutte "Sotto le stelle del jazz", superbo compendio di ogni nostalgia contiana, fiore fiorito di un’intimità poetica sospirata nella notte al ritmo di blues. L’album è di grande pregio e non poteva non ottenere un unanime consenso, vale a dire quel successo che sigla l’inizio della popolarità.

Sito ufficiale: http://paoloconte.warnermusic.it


Nel caso di Paolo Conte, la fama lo porterà all’estero, nella sua amata Francia dove è conosciuto ancor più che in casa nostra. Il disco che testimonia l’evento è “Concerti” (1985) e ripropone (live) i pezzi più significativi dei lavori precedenti. Ciliegina sulla torta è "Azzurro" che per voce di Conte acquista una rinvigorita genialità.

Nel 1987, in doppio cd, esce “Aguaplano”. Bellissimo titolo, anzi parola, che porta inevitabilmente ad immaginare non solo quel che il brano promette, ma si tramuta finanche a metafora di tutto il disco. Nel senso che, in Aguaplano, Conte pare meditare sui contenuti della sua musica elaborata finora: “Facciamo un po’ di Letteratura con la miseria della mia bravura” (da "Nessuno mi ama", sentimentalmente anni ‘30) e, perciò, questa ponderazione diventa la ragione del concepimento dell’album. 21 pezzi onnicomprensivi dei temi contiani. "Max", ennesimo capolavoro col suo crescendo raveliano; "Spassiunatamente", omaggio alla vecchia canzone partenopea; "Gratis", ironica ballata in rima; "Paso doble", divertita burla tra pianoforte e voce; "Non sense", caricatura del pianoforte come colonna sonora di un film muto; "Ratafìa", fonemi esterofili, onomatopee, atletiche consonanti che la voce intreccia con poderose consonanti; Un senso di sensualità, poi, percorre con la musica l’intero album anche lì dove il testo ne è apertamente privo. (“Niente di premeditato se non il gusto ereditato dalla passione per il jazz antico, per una pronuncia degli strumenti fisica, sensuale…”) Un bel disco, in conclusione, che riporterà la stessa estetica in “Paolo Conte live” del 1988. Nel 1990, con “Parole d’amore scritte a macchina”, Paolo Conte si prova a misurare altre vie espressive, iniziando dalla cover che è di Hugo Pratt. L’album è atipico, strano, insolito. Sebbene presenti brani come "Ma si t’a vo’ scurdà", altro omaggio partenopeo oppure "Mister Jive" ancora in odore di Cotton Club. Nonostante la fisarmonica di "Colleghi trascurati" e tutto lo swing, il jazz & C. che ci sono nel disco, si respira aria di ricerca. In "Dragon" c’è un’atmosfera blues sincopata da cupi suoni e da un chorus quasi afro che copre un’inesistente voce di Conte. Bizzarro il coro femminile che conduce "Il Maestro", esplicito richiamo a Verdi persino nel ritmo da opera lirica. D’impronta musicalmente “eroica” è "Ho ballato di tutto", mentre "Un vecchio errore" rivendica un orgoglioso spleen fin troppo proclamato. Intimità da confessione, arzigogoli linguistici, nostalgie declinanti. Ovviamente non siamo lontani dal primo Conte, ma le diversità volutamente decise si sentono. Così come si avverte in “900” (1992) una scelta uguale e contraria. Tanto nostalgicamente intimistico “Parole d’amore scritte a macchina”, tanto vivacemente chiacchierino “900”. Qui sono fusi tutti gli stili musicali sotto l’arco dei primi del 900 (appunto!) ed allora "La donna della tua vita" diventa un pout pourri di linguaggi musicali. Pianoforte e contrabbasso coronano l’ironica ammissione di "Per quel che vale" e l’originalità dello swing contiano esplode in "Gong-oh" ed in "Brillantina bengalese". Tango compassionevole per "Schiava del Politeama" e di nuovo ballate, tenera per "Il Treno va" e farsesca per la stessa "Novecento", ma entrambe avvolte nel felliniano provincialismo sul quale all’avvocato piace puntare lo zoom. Quindi due opere diverse queste, per desiderio di un diverso che sia uguale. Un nuovo e sperimentale contenitore per un contenuto che lo stesso Conte non vuole, non può e non deve cambiare. S’arriva dunque al 1993 ed al primo di due album live omonimi “Tournée” (il secondo sarà pubblicato nel 1998). L’artista presenzia ogni millimetro d’Europa con i suoi concerti ed esce con tre inediti "Bye, music", "Ouverture alla russa", "Reveries".

“Una faccia in prestito”
è datato 1995 e, seppure bello perché stiamo parlando d’un artista che quasi mai si è imitato fino ad annoiarci, poco attrae. Lo stile, gravoso, invita a tavola ospiti dalle facce note: tromba con sordina armstronghiana ("Don’t I throw it in the W.C."), duetti piano-voce ("Danson metropoli"), acrobatico grammelot. Certo “il curatore fallimentare”, come s’è detto, ha fantasia da vendere ed ecco che, liberandosi di una sua nobile pigrizia, ci regala anche pezzi al modo della rumba di "Elisir" oppure del can-can in dialetto artigiano di "Sijmadicandhapajiee". Lui dice: “Non considero il mio mestiere simile a quello del cantautore, ma piuttosto simile al raccontatore di favole, tristi e allegre: comunque favole, fantasmagorie, visioni, invenzioni, sogni” ... nessuno può dargli torto e questo album meno di tutti. “Tournée 2” chiude il Novecento e con cinque inediti diventa il miglior live di Conte. Brani da big band sono "Swing", "Legendary" e "Irresistible"; appassionata "Roba di Amilcare", dedicata ad Amilcare Rambaldi, fondatore del Premio Tenco, ed infine "Nottegiorno".